Non capita tutti i giorni di conoscere un campione del mondo. Quando si stringe la mano a Luca Martini la prima domanda che viene in mente è “Come si diventa Sommelier Campione del Mondo?” e subito dopo “Quali doti servono, quali doti ha Luca, che gli hanno permesso di raggiungere questo risultato?”
Dopo questa intervista, per me le risposte sono chiare: talento sicuramente, e passione. E una dose molto superiore a quella che ci si potrebbe immaginare di impegno, volontà e determinazione.
A Luca – a parte il vino – piace pescare (tantissimo), andare in moto (tantissimo) e collezionare moto d’epoca. Ha una famiglia che lo supporta (tantissimo) “Senza la famiglia che ti corre dietro non si possono raggiungere determinati risultati, quindi è un punto cardine, e poi insieme ci divertiamo molto” è una delle prime cose che mi ha detto Luca.
I nonni materni hanno sempre fatto ristorazione, i suoi genitori ci sono arrivati negli anni ’80 – suo padre lavorava nell’oreficeria. Luca aveva 11 anni e ricorda “mi misero su una cassettina dell’acqua per arrivare alla macchina del caffè e in una sera ne ho fatti 1200. Da lì ho capito quello che dovevo fare.”
Ed è stato proprio così: l’Istituto Alberghiero di Chianciano, e quando torna a casa ad Arezzo tutti i fine settimana lavora nel ristorante di famiglia. Lavora anche durante le vacanze estive e finita la scuola va in Inghilterra per uno stage di 3 mesi, con le mance va una settimana a Londra: paga l’ostello per un mese, compra una travel card, fa rifornimento di pasta e pomodori, spende gli ultimi piccioli per le fotocopie del suo curriculum e inizia a cercare lavoro. Dopo due giorni ha la fortuna di capitare in un posto molto prestigioso in Piccadilly, riesce a parlare con il Manager – che è il miglior sommelier d’Europa: Jean-Pierre Esmilaire, allora Director d’Exploitation della Caviar House & Prunier, che gli propone di lavorare per lui a un piccolo fisso mensile ma con la libertà di lavorare quando e quanto volesse con una percentuale del 20% sulle vendite. Luca resterà in Caviar House & Prunier per un anno e mezzo, guadagnando 11 milioni al mese. A partire da questa ogni esperienza che farà a Londra, lavorando con personaggi come Anthony Hanson, British Master of Wine e Senior Consultant del Cristie’s International Wine Department, e in ristoranti stellati e non, sarà sempre in locali i cui titolari gli permetteranno di studiare – ha frequentato i tre livelli del Wine &Spirit Education Trust – e spesso lo sponsorizzeranno.
“Poi nel 2003, visto che avevo passato gli ultimi 10 anni a lavorare senza passare l’estate con gli amici, parto per l’Australia insieme a quattro ragazzi che avevo conosciuto 5 anni prima all’ostello. Coi soldi guadagnati a Londra compriamo un furgone e giriamo l’Australia. Prendo un diploma sulla vinificazione all’Università di Adelaide, altri due al Mount Lofty ed a Margareth River alla Cullen Winery. Nel frattempo raccolgo le mele, giro tutta la Tasmania, passiamo 6 mesi in Thailandia per poi tornare in Australia. E’ stato il viaggio della nostra vita, il bisogno di vedere cose indelebili, il ricordo dei profumi, spezie, la lemon grass, il cocco, l’ananas, i rum thailandesi… tutte cose fondamentali per scoprire l’arte dell’abbinamento. Quando poi si va nei mercati galleggianti di Chiang Rai, di Chiang Mai… si trovano interazioni, puzze e profumi di una vita totalmente diversa nei gusti, nei sapori, nella filosofia, negli odori, un’esperienza da fare.”
Dopo un anno e mezzo sabatico Luca ritorna a Londra e da quel momento decolla la mia carriera perché inizia a lavorare con Steven Spurrier uno dei grandi guru internazionali del vino, Direttore di Decanter Magazine. Lui lo mette in contatto con Michael Broadbent, Hugh Johnson, Serena Sutcliffe, alcuni tra i più grandi critici del mondo e “ho capito cos’è l’Inghilterra per il mondo del vino, ancora oggi per me rimane il miglior mercato al mondo: i più grandi critici di vino sono in Inghilterra. Sono loro che hanno inventato il vino, hanno inventato lo champagne, lo sherry, il Porto, il nostro Marsala – quando sono approdati nel porto di Marsala pensavano di essere arrivati in Arabia, presero i vini migliori dalle cantine, li fortificarono e li portarono in patria come facevano con i Porto, i Madeira, i Malaga… hanno inventato il vetro, il metodo Perret che arriva prima del Dom Pérignon”.
“A 23 anni avevo la gestione di 4 ristoranti, 70 mila bottiglie di vino, lavoravo 4 giorni e mezzo la settimana con agosto e dicembre liberi; avevo il mio ufficio, 29 dipendenti, un ottimo stipendio più bonus a fine anno. Avevo rapporti con i più grandi broker del vino internazionale, Simon Berry di Berry Bros & Rudd, Justerini & Brooks, avevo partecipato e vinto concorsi in Inghilterra come miglior sommelier del Porto, dello Champagne. Avevo già fatto praticamente tutto e cercavo nuovi stimoli.”
Era tempo di tornare in Italia.
E in Italia nel 2007 Luca viene eletto Miglior Sommelier di Toscana per AIS, nel 2009 Miglior Sommelier d’Italia. Gestisce il ristorante della nonna – Osteria da Giovanna – sviluppa l’attività di consulenza come quelle per Salvatore Ferragamo, Fattoria Montalcino, e contratti con aziende importanti per le quali fa il selezionatore. Conosce Milena, si sposano due anni dopo.
Ma non basta: nel 2012 nel suo mirino c’è il titolo mondiale. Un anno e mezzo di sacrifici, viaggi, training e studio “non suona bene da dire ma è stata come una forma di autismo” dice Luca “ho azzerato tutto per lasciare spazio solo a studio e disciplina: la casa era tappezzata di appunti, la mattina rileggevo la parete dall’angolo inferiore a quello superiore e la sera prima di andare a letto rileggevo i vari appunti e cartelloni appesi all’armadio e alla parete della camera per la memorizzazione, alcune materie richiedono uno sforzo aggiuntivo, come rimettersi a studiare chimica organica.” Negli ultimi 6 mesi quando Milena gli chiedeva come stesse Luca rispondeva con una degustazione di vino o parlandole dei grand cru della Borgogna o dei varietali utilizzati in champagne “se non fossimo stati già sposati credo che mi avrebbe lasciato”.
Per essere ammessi al campionato bisogna riuscire a superare tutte le selezioni: da 33.000 persone in Italia si arriva a 10 e infine ai tre italiani in rappresentanza del nostro Paese. La selezione spazia su tutte le parti del mondo, il cambio di lingua, gli abbinamenti, sostanze nervine, distillati, tè, spezie, “una domanda tipica che mi hanno fatto nelle semifinali è: dimmi le 8 spezie del curry. Uno penserà non c’entra niente con il vino… oppure: spiegami cos’è un boletus aereous o cos’è una cagliata acido presamica. Tutte queste sfumature poi servono nell’abbinamento.
Io mi sono imparato a memoria i nomi botanici delle varietà di riso, piuttosto che la storia del caffè, tutto questo serve a un sommelier? Sì, serve perché apre la mente, serve studiare un menu, studiare i ricarichi, servono le prove di comunicazione, capire l’interazione coi clienti, quante lingue parli, la conoscenza dei vini e distillati nazionali ed esteri, e poi comunque vada devi fare delle degustazioni bendate dove hai acqua, caffè, altre sostanze nervine, tre vini e due distillati.”
Alla finale arrivano 54 concorrenti da oltre 20 nazioni.
L’ultima prova è una degustazione cieca di tre vini, mezz’ora per rispondere a un questionario di 30 domande aperte, una prova di comunicazione “ti mostrano una foto e in 3 minuti devi dire tutto quello sai, ti fanno servire una bottiglia di spumante, poi una prova in lingua col cambio di lingua quindi magari dal francese devi passare all’inglese e viceversa – una nuova regola, introdotta proprio con il mio Mondiale perché prima i concorrenti facevano l’esame in lingua madre.”
“Quello che mi resta di quel momento sono le persone che erano presenti e che hanno visto con quanta forza sono riuscito a conquistare il titolo di Sommelier Campione del Mondo. Per me è stato anche più difficile, perché il precedente titolo mondiale era stato vinto da un italiano e nessuno si augurava che la cosa si ripetesse: quindi dovevo essere 3 spanne più in alto. Un obiettivo così importante non ti porta a montarti la testa ma a una consapevolezza molto bella che ti fa pensare: se voglio e mi impegno ce la posso fare.”
“E poi resta tutto quel bagaglio di emozioni, di sguardi e di occhiate che sono indelebili.”
Come mi piace spesso fare, ho concluso l’intervista a Luca con un fuoco di fila di domande brevi: per lui ne ho preparate 11.
1- Il tuo primo bicchiere?
Avevo circa 8 anni, era la vigilia di Natale e scoccata la mezzanotte mi sono addormentato sotto al tavolo per i cantucci tuffati nel Vinsanto, quello di mio padre – in Toscana tutti fanno il Vinsanto.
2 – Quali sono i vini che ti emozionano ancora?
Sono vini pieni di personalità con una linea molto sottile di interazione con la terra. Non necessariamente perfetti ma che raccontano una personalità e una storia.
3 – Li incontri spesso?
Ultimamente sempre di più, tre o quattro anni fa ne incontravo molti meno. Premetto: apprezzo i vini biodinamici, i vini naturali, i vini organici, ma in generale amo i vini convenzionali fra virgolette, i vini originali. Ricordiamo i vini che fanno vibrare – i vini devono essere un’emozione – e non è detto che i miei gusti siano quelli del consumatore, molte volte sì, ma non necessariamente. Cerco sempre di analizzare quello che vuole il consumatore, però Luca – la persona e il sommelier – ha i suoi vini e le sue grandissime bevute che lo fanno emozionare.
4 – Quali sono le caratteristiche che cerchi in un vino bianco?
Originalità, facilità e grande territorialità.
5 – In un rosso?
La freschezza, la serbevolezza, originalità anche qui e i tratti distintivi della terra.
6 – Freschezza e serbevolezza ce l’hanno in pochi?
Pochi. Il senso è un vino rosso che si faccia bere bene e abbia tanta acidità. Contrariamente a chi dice ‘non amo questo vino perché è acido’ e cerca tutti quei vini rotondi e seduti, per me la freschezza – come nella mia personalità – è il segreto per la longevità. Un vino senza freschezza è un vino morto dal mio punto di vista. La freschezza snellisce tannino, snellisce alcol, rende piacevole la beva e versatile il servizio.
7 – Un vino fresco e invecchiato è raro?
Ce ne sono, non sono rari. Anzi forse i vini più invecchiano e più vanno a perdere un po’ di pigmento…
Quando si dice che un vino è ‘marsalato’… uno pensa al Marsala pensa a quella nota ossidativa, però il Marsala è acido. Il pensiero va subito all’astringenza gustativa, non alla dolcezza del Marsala. E’ un vino ossidato, quindi un vino che nasce secco non potrà mai essere dolce. L’acidità è fondamentale, in un vino che invecchia la cosa che rimane dorsalmente viva è la freschezza, l’acidità.
8 – Quanto sono sopravvalutate le bollicine?
Secondo me a volte tanto. Ci sono grandissime bollicine, a volte ce ne sono un po’ troppe. La moda delle bollicine è molto interessante, e la qualità delle bollicine è cresciuta tantissimo in Italia.
9 – Quanto la patria delle bollicine è la Francia e quanto l’Italia?
Francia batte Italia 90 a 10.
10 – E’ una questione di territori o di expertise?
Sicuramente il terreno che hanno è vocato, il terreno che hanno è riconoscibile d’istinto nel prodotto, e poi sono bravi, sono molto bravi.
11 – Dove sono le bollicine migliori in Italia?
Le bollicine migliori come le peggiori sono da tutte le parti, non esiste una regione che produce meglio o peggio. Sicuramente ci sono varie personalità, varie sfaccettature; e infatti anche in questo libro ho scritto delle bollicine che mi hanno stregato. Mi hanno stregato in quell’anno, in quel cru, in quel filare, da quel produttore. Magari non si sono mai ripetute. Quindi, sono momenti.
(Sandra Longinotti www.sandralonginotti.it – twitter @s_longinotti)